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Immagine del redattoreGerardo Fortino

Vennero di notte. Sono un cazzo di Bambino Soldato!

Aggiornamento: 6 giorni fa


Repubblica Democratica del Congo Bambino Soldato

Vennero di notte: la realtà di un bambino soldato


Il nostro villaggio dormiva. Ricordo che il fumo del fuoco stava svanendo e il vento portava l’odore delle piante bruciate del campo vicino. Mia sorella dormiva accanto a me, stretta a una bambola di stracci che aveva costruito con mia madre. Poi sentirono i passi. Gravi, rapidi, come un tamburo di guerra.


Non furono le urla a svegliare tutti, ma il primo colpo di fucile. Era un suono che spezzava la notte, come un vetro infranto. Mio padre si alzò di scatto, ci guardò e ci sussurrò:


“Nascondetevi sotto il letto, non uscite per nessun motivo.”

Non lo vedemmo mai più.


I soldati erano già dentro. Io li sentivo, i loro stivali che spaccavano il pavimento di terra, la loro voce roca che urlava ordini. Gridavano in lingue che conoscevo, ma le loro parole sembravano vuote, come se fossero state svuotate di ogni significato umano. Sparavano a tutto: le pareti, le finestre, le persone. Una donna gridava fuori casa nostra. Gridava forte, come se potesse svegliare il cielo stesso. Poi silenzio. Il silenzio della morte.


I soldati arrivarono a noi. Uno mi afferrò per un braccio e mi tirò fuori. Mia madre cercò di fermarli, ma non ci fu tempo. Un colpo, e lei cadde. Il sangue arrivò fino ai miei piedi. Non urlai, non piansi. Ricordo che mi guardai le mani: erano sporche di terra, ma il sangue stava iniziando a sporcarle. Era caldo.

Mi portarono via.


“Se scappi, sei morto,”

mi dissero. Non scappai. Eravamo in tanti, presi come sacchi da raccogliere durante il raccolto. I soldati ci portarono lontano, dentro una foresta. Camminammo per ore, senza acqua né cibo. Il più piccolo tra noi cadde a terra. Gli spararono senza neanche guardarlo.


La realtà dei bambini soldato.


Secondo le Nazioni Unite, oggi nel mondo ci sono almeno 350.000 bambini soldato, costretti a combattere in oltre 20 conflitti. La Repubblica Democratica del Congo è uno dei paesi con il numero più alto di bambini reclutati a forza. Bambini e bambine vengono rapiti durante attacchi ai villaggi o presi dalle strade, strappati alle loro famiglie e addestrati con violenza.


Molti di loro subiscono violenze psicologiche e fisiche che li segnano per sempre. Oltre ad essere obbligati a combattere, i bambini vengono utilizzati come spie, cuochi, facchini e, nel caso delle bambine, spesso come schiave sessuali.


La RDC è devastata da decenni di conflitti armati, alimentati da gruppi ribelli come l’M23, che sfruttano i bambini per mantenere la loro forza militare. Si stima che dal 1996, i conflitti nel Congo abbiano causato oltre 6 milioni di morti, la maggior parte civili. Il reclutamento di bambini soldato è una pratica comune, soprattutto nelle regioni orientali del paese, dove la lotta per il controllo di risorse come coltan, oro e diamanti rende la violenza una costante.


L’inizio della fine.


Mi dissero che sarei diventato un uomo. Mi misero un fucile in mano. Era freddo, pesante. Le mie dita erano troppo deboli per reggerlo. Mi gridarono addosso. Uno di loro mi diede un calcio al petto. Caddi, e lui mi prese per i capelli.


“Un soldato non è debole,”

mi sussurrò nell’orecchio.


“Impara, o muori.”

Quella sera, mi fecero vedere come si uccide. Presero un uomo, legato, e lo misero in mezzo a noi. Era magro, con gli occhi spalancati, come se cercasse aiuto da qualcuno. Uno dei soldati prese un machete e lo usò. Gli altri risero. Io non risi. Il suono del machete che colpiva la carne mi rimase nelle orecchie per giorni. Quella notte non dormii.


Il giorno dopo, fu il mio turno. Mi diedero un machete e mi dissero di fare lo stesso. Mi tremavano le mani. Guardai l’uomo davanti a me: non era più un uomo, era solo un corpo che respirava. Feci quello che mi dissero. Il sangue arrivò fino al mio volto. Non urlai, non piansi. Non dissi nulla.


Ora ho 14 anni.


“Ho ucciso diverse persone e non ho più paura,”

mi dice, fissandomi con quegli occhi duri come il metallo.


“So che combatto per una cosa giusta. Mi hanno insegnato a essere forte, a essere un soldato, a salvare il mio popolo.”

Gli chiedo:


“Ma ti hanno rovinato l’infanzia?”

Lui ride, una risata breve, aspra, quasi crudele.


“Noi, nel Congo, non abbiamo mai un’infanzia. Ora ho una missione.”

Le sue parole, balbettanti ma incrollabili, mi scuotono. Dentro di me, penso che sia irrecuperabile.


Come puoi cambiare un bambino che non ha mai avuto il tempo di essere un bambino?


Poi aggiunge, con un tono ancora più fermo:


“Essere bambini non serve a niente qui. Qui muori se non sei forte. Io sono forte.”

A un certo punto, mentre continuavo con le domande, la mia guida si avvicinò a me e mi sussurrò:


“Non fare altre domande su quello. Non è sicuro.”

Rimasi interdetto. Volevo chiedere di più, approfondire, ma il tono serio della guida mi fece capire che dovevo fermarmi. Il silenzio che seguì pesava più di ogni risposta.


Mai mi sono sentito così piccolo davanti a qualcuno. Era un bambino, ma niente in lui lo era più. Eppure, mentre parlava, le sue labbra tremavano leggermente, come se cercassero una parola che non riusciva a trovare. Forse una parola che aveva dimenticato, o che nessuno gli aveva mai insegnato.


Mentre si alza per andarsene, non riesco a togliermi dalla testa il suo sguardo. Forte, impenetrabile. Mi ha messo in soggezione come mai mi era successo prima.


Gli chiesi se potevo scattargli delle fotografie. Si voltò verso il colonnello, come se solo lui potesse decidere. Il colonnello annuì, con un gesto rapido e autoritario. "Puoi farle," disse. Lui obbedì senza dire una parola, sistemando la postura come fosse abituato a eseguire ordini, senza mai abbassare lo sguardo.


"Stai naturale," gli dissi, cercando di allentare la tensione. Ma cosa significava naturale per lui? Volevo catturare l’essenza di questo bambino soldato, un volto che raccontasse la sua storia meglio di qualsiasi parola. Guardandolo attraverso l’obiettivo, vedevo un bambino, ma anche qualcosa di spezzato, qualcosa di irreparabile.


Non abbassò mai lo sguardo, nemmeno davanti alla macchina fotografica. I suoi occhi fissavano la lente come se stesse affrontando un nemico invisibile, una sfida silenziosa. Era immobile, rigido, come se la sua stessa esistenza fosse un ordine da rispettare.



 
Nota:

Questa storia è il risultato di un'intervista con un bambino soldato nella Repubblica Democratica del Congo. La narrazione è fedele ai fatti raccontati, ma alcune parole sono state aggiunte o adattate per fornire un contesto più chiaro dell'avvenimento e rendere il racconto più accessibile ai lettori.