La Fotografia come Riflessione Intima e Scomoda sulla Condizione Umana
Quando si prende in mano una macchina fotografica per la prima volta, se è destino, si viene sedotti, si accetta un invito implicito a intraprendere un viaggio particolare. È una relazione intima e profonda tra il fotografo e il suo strumento, un legame che richiede una sensibilità audace, talvolta sfrontata, mai invasiva. È una carezza sottile, come quella delle dita sulla pelle, così lieve da percepire ogni minimo dettaglio.
Con il tempo, comprendi di non poterne più fare a meno: la macchina fotografica diventa un’estensione di te, quasi una condanna volontaria. Sei suo schiavo e insieme padrone, perché la capacità di immortalare un attimo dà l’illusione di dominare la vita. A volte, prima ancora di scattare, la fotografia ti sussurra. L’occhio la coglie, si ferma su di essa. In quell’istante, regoli la luce, cerchi l’angolazione, valuti il soggetto. E il soggetto è cruciale: può scuotere intere generazioni, può arrivare a toccare perfino l’anima di chi detiene il potere.
C’è un atto solenne nella denuncia attraverso l’obiettivo. Fotografare è un rito intimo che richiede una profonda connessione con il mondo e con se stessi. Alcuni soggetti, nel tempo, riescono a scuoterti dentro, anche a distanza di anni. Cosa succede quando scatti il corpo di un bambino malnutrito, un essere umano ridotto a uno scheletro, un guscio in cui è intrappolata una dignità spogliata e un’anima che sembra prosciugata di ogni respiro? Ti soffermi su quei dettagli: le ossa della gabbia toracica come le zampe di un ragno che sembrano avvolgerlo, soffocandolo. Uno sguardo perso, oltre il vuoto. È uno sguardo che solo l’obiettivo può cogliere fino in fondo.
Poi ci sono le masse, i grandi scenari, dove la fatica si manifesta nei volti di madri e bambini che rovistano negli scarti di un continente intero. E allora comprendi che quella fotografia è una riflessione più grande, l’eco di un evento che ha avuto inizio secoli prima. La contestualizzi nella tua epoca, nel tuo mondo. In Africa, un bambino malnutrito spesso non fa notizia, ma in Europa sì. Perché? La risposta comune è: “Noi abbiamo tutto, loro niente.” Ma non è così semplice. Nel nostro DNA collettivo c’è una vergogna ancestrale, perché sappiamo che, in fondo, qualcosa di questa ingiustizia è anche colpa nostra.
Mentre fissiamo l’immagine di un bambino affetto da una malattia dimenticata, che ci guarda con uno sguardo di sfida anziché di paura, ci sentiamo nudi, con le spalle al muro. Ed è forse così che dovremmo sentirci. Il compito di un fotografo è risvegliare emozioni che scuotano le coscienze, unire epoche distanti e stimolare una riflessione profonda, che apra le porte a un racconto più grande e più giusto.
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