La forza della fotografia: Il reporter, un viaggio in Congo tra storie di speranza e disperazione
Scrivo queste righe sia come fotoreporter sia come persona che, da dieci anni, porta sulle spalle storie di luoghi e persone che spesso restano nell’ombra.
Quando mio padre mi regalò la mia prima macchina fotografica, una Fuji Film compatta, la mia vita cambiò radicalmente. Non solo nelle esperienze vissute, ma soprattutto dentro di me. Ricordo le domeniche passate da mia nonna, immerso nei documentari del National Geographic, mentre osservavo quei fotografi coraggiosi raccontare il mondo attraverso i loro scatti. Crescevo con una visione romantica del fotografo, quel custode del tempo capace, con un singolo scatto, di raccontare un'epoca, una storia, la vita di un uomo. Credevo nel potere della fotografia di cambiare le cose.
Dopo l’università a Teramo, dove ho incontrato una sorta di seconda famiglia, ho deciso di prendere in mano la macchina fotografica non più per gioco, ma come mestiere. Volevo essere uno di quei reporter. È stato l’inizio di un percorso fatto di storie potenti e di terre lontane, soprattutto in Africa. Ho imparato cosa significa immortalare la vita in luoghi duramente segnati dalla guerra, dalla povertà, dalla fame.
Oggi mi trovo nella Repubblica Democratica del Congo, quasi al termine di un progetto
Ho visitato diversi campi profughi, ascoltato voci spezzate, visto volti segnati da sofferenze indicibili. La realtà è più dura di quanto si possa immaginare, specialmente quando apprendi che il bambino affetto da malnutrizione grave, che avevi fotografato per testimoniare la sua lotta per la vita, è morto. È morto perché nato nel luogo “sbagliato” del mondo.
Viaggiare così tanto mi ha insegnato a valorizzare ciò che tanti danno per scontato. Ho visto uomini e donne ridotti a scheletri, anime intrappolate in baraccopoli, vittime dimenticate di guerre lontane. Come Salgado, dopo tanti anni, comincio a sentire il peso dell’oscurità che si insinua dentro, pur mantenendo la speranza che la luce possa risplendere. Non voglio mollare, ma vi invito a guardare chi vi è accanto, a osservare e apprezzare ciò che avete, anche se sembra piccolo. Sta arrivando Natale, e per la prima volta da anni non vedo l’ora di tornare a casa, adornare quell’albero, ridere e scherzare con i miei cari. Eppure lo farò con il cuore a pezzi, perché so cosa ho visto, cosa ho sentito, cosa ho toccato e respirato.
In questo percorso, mi sono sentito solo, ma ho trovato la forza grazie ad amici incredibili e al sostegno di RCE. Qualcuno potrebbe dire che questa è una marchetta; chi mi conosce sa che non ho mai svenduto la mia missione per interesse. Essere un reporter significa toccare con mano il male del mondo. Non siamo “content creator”, non siamo turisti con la macchina fotografica. Il vero reporter non cerca il selfie perfetto con il bambino africano da mostrare per vantarsi di aver visto il “volto della povertà”. Questa strumentalizzazione è parte del motivo per cui l’Africa è diventata uno dei continenti più sfruttati.
A volte mi chiedo: se i volontari fossero costretti a lasciare il telefono in stanza, se non potessero scattare foto e pubblicarle, continuerebbero a fare volontariato? C’è una pornografia del dolore che avvantaggia alcune ONG come Unicef e UNHCR, alimentata da un sistema in cui il dolore è venduto come uno spot pubblicitario. Il cibo terapeutico che vediamo donato in questi spot, in realtà, viene spesso venduto, e bambini muoiono perché cento dollari valgono più della loro vita. Questo fa male all’anima.
In Congo, la situazione è una crisi umanitaria continua. Oltre 7.2 milioni di persone sono sfollate all’interno del paese, in fuga da conflitti armati e instabilità. Nei campi profughi, quasi il 70% delle persone soffre di malnutrizione acuta e vive in condizioni estremamente precarie. La maggior parte non ha accesso ad acqua potabile, e il rischio di malattie come colera e malaria è sempre altissimo. L’estrazione illegale di risorse come il coltan, usato nei dispositivi elettronici, ha alimentato un ciclo di violenza che non sembra finire mai. E tutto ciò avviene nel silenzio generale.
In questi giorni di intensa precarietà, di momenti in cui mi sono sentito avvolto dal caos di ciò che sto documentando, ho riflettuto su tutto quello che ho visto, su ogni parola raccolta, su ogni sguardo che ho incrociato. Ho sentito il mio cuore battere con una forza quasi insopportabile, come se volesse esplodere, come se cercasse di ricordarmi ogni volta perché faccio questo lavoro. Essere un reporter è tormento, è un dovere, è una missione. La mia è quella di scattare una foto che possa cambiare qualcosa, scuotere coscienze addormentate, spingere l’umanità a riconquistare la propria dignità.
Ma a volte mi chiedo se è possibile, se davvero l’essere umano sia capace di risvegliarsi, o se il potere, nelle mani di pochi, preferisce veder bruciare il mondo pur di guadagnarci qualcosa. Forse sono loro, questi pochi potenti, il vero ostacolo al cambiamento.
A voi che leggete, allora, dico: godetevi le piccole cose. Godetevi quegli abbracci dei nonni, quelle attenzioni dei genitori, anche quelle dolcezze che a volte ci fanno sorridere. Sono questi i veri tesori della vita, perché credetemi, quando si cammina nell’inferno, l’unica forza che ci tiene in piedi è sapere che c’è un posto da poter chiamare casa, e persone che ci aspettano al sicuro.
Padre Alex Zanotelli, un'intervista che fa riflettere. Al di là della chiesa o della fede in qualsiasi divinità. Le sue parole vanno ascoltate.
RawFacts è più di un progetto. È un grido d'allarme. È il volto dei dimenticati, dei raccoglitori di Dandora, dei bambini che giocano tra i rifiuti e degli ecosistemi che lottano per sopravvivere. Non possiamo permetterci di voltare lo sguardo.
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