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- Addio a Oliviero Toscani: Il Genio che Ha Rivoluzionato la Fotografia e la Comunicazione Visiva
Addio a Oliviero Toscani: Oggi il mondo della fotografia e della comunicazione visiva piange la scomparsa di Oliviero Toscani , morto all’età di 82 anni. Conosciuto per il suo spirito rivoluzionario, Toscani ha lasciato un’impronta indelebile nel panorama artistico internazionale. Il fotografo milanese non è stato solo un artista, ma anche un narratore coraggioso che ha usato la sua macchina fotografica per scuotere le coscienze e affrontare le contraddizioni del nostro tempo. Addio a Oliviero Toscani: Una Vita Dedicata alla Fotografia Nato a Milano nel 1942, Toscani è cresciuto respirando la passione per l’immagine grazie al padre, Fedele Toscani, celebre fotoreporter. Dopo aver studiato fotografia e grafica alla Kunstgewerbeschule di Zurigo, Oliviero ha collaborato con le più prestigiose riviste di moda, tra cui Elle , Vogue e Harper's Bazaar . Tuttavia, è stato il suo lavoro come direttore creativo per Benetton a consacrarlo come uno degli artisti più influenti del XX secolo. Le Campagne che Hanno Cambiato il Mondo Dal 1982 al 2000, Toscani ha firmato campagne pubblicitarie per Benetton che hanno fatto storia, trasformando semplici messaggi di marketing in potenti strumenti di denuncia sociale. La sua fotografia provocatoria ha affrontato temi complessi e scomodi come il razzismo, l'AIDS, la pena di morte e la guerra. Tra le sue opere più iconiche, impossibile non ricordare lo scatto di David Kirby , un malato di AIDS sul letto di morte, circondato dalla famiglia. Questa immagine, diffusa in tutto il mondo, non solo ha sconvolto, ma ha anche contribuito a sensibilizzare milioni di persone sulla piaga dell'HIV. L’Arte come Strumento di Provocazione Oliviero Toscani non si è mai limitato a creare immagini belle o accattivanti. Il suo obiettivo era sfidare le convenzioni e mettere lo spettatore di fronte a verità scomode. La fotografia non serve solo a decorare le pareti. Deve provocare, far pensare, smuovere le coscienze, amava ripetere. I suoi scatti, spesso controversi, hanno diviso l’opinione pubblica, suscitando ammirazione e critiche. Toscani credeva che l'arte non dovesse essere neutrale, ma un mezzo per combattere l'ipocrisia e il conformismo. Un Uomo Coraggioso Fino alla Fine Negli ultimi anni, Toscani ha affrontato con dignità una malattia rara e incurabile, l’amiloidosi, che lo ha costretto a rallentare il suo lavoro. Nonostante ciò, la sua mente e il suo spirito creativo non si sono mai fermati. Fino all’ultimo, ha continuato a condividere la sua visione del mondo, sfidando il pubblico a non accontentarsi mai dell’apparenza. Un’Eredità Senza Tempo Oliviero Toscani ci lascia un’eredità artistica e morale straordinaria. I suoi scatti rimarranno per sempre una testimonianza del suo coraggio, della sua visione unica e della sua incessante ricerca della verità. Le sue immagini continueranno a ispirare artisti, comunicatori e pensatori di ogni generazione. Il suo nome resterà per sempre sinonimo di fotografia come strumento di cambiamento. Oggi più che mai, il mondo ha bisogno di persone come lui, capaci di illuminare la realtà con uno sguardo critico e compassionevole. Oliviero Toscani non è più con noi, ma il suo spirito vive nelle immagini che ha creato e nei messaggi che ha lasciato. Un maestro, un visionario, un provocatore: grazie, Oliviero, per averci insegnato a guardare il mondo con occhi nuovi.
- La prigioniera del silenzio, Valeria Montaldi
Una storia di madri e donne nella Venezia del Trecento: il romanzo di Valeria Montaldi Venezia, 1327. Giulia è l’erede di una ricca famiglia aristocratica e nasconde un segreto che potrebbe rovinare la sua posizione sociale: Samuel, un mercante ebreo per il quale prova un amore travolgente, passionale. Sopraffatta dai suoi sentimenti, la giovane rimane incinta e, per non creare intorno alla sua rispettabile famiglia uno scandalo irreparabile, si trova costretta a rinunciare al frutto del suo vero amore e a dedicarsi alla vita monastica. Una maternità negata si prospetta, analogamente, anche per Nicoleta, figlia invece di un umile carpentiere e vittima di uno stupro. Quella di questa seconda protagonista sarà però invece una scelta consapevole, non imposta: privarsi del bambino nato dalla violenza per potersi ricostruire una vita attraverso un lavoro in grado di restituirle la dignità che le è stata strappata. Venezia, 1348. Giulia e Nicoleta sono chiamate a prendere decisioni difficili, decisioni che avranno un impatto sulla vita che si sono faticosamente e dolorosamente ricostruite e che ruotano intorno al loro ruolo di madri nel momento in cui le loro esistenze si intrecciano inaspettatamente con quelle dei figli che tanti anni prima hanno abbandonato. Qual è il ruolo di una madre biologica e quale quello di un genitore adottivo? Non essere pronte per la maternità è forse un crimine? Lo è esserlo ma senza un partner? Valeria Montaldi risponde a queste domande con un romanzo storico di un’attualità sconvolgente, prendendo come esempio due madri che, come tante altre donne reali prima e dopo di loro, hanno compiuto la dolorosa scelta di rinunciare ai propri figli e con tale decisione sono state costrette a convivere per anni. La prigioniera del silenzio: Tra presente e passato Quella della Montaldi in questo romanzo è un’attenta rievocazione storica, che spazia tra i minuti dettagli della toponomastica della Venezia del Trecento e i maggiori eventi che in quel secolo hanno colpito la città, come l’epidemia di peste e il terremoto che ha distrutto gran parte degli edifici. “ Historia magistra vitae ”, diceva Cicerone, “la storia è maestra di vita”. E infatti, ciò che colpisce di più il lettore, al di là dell’attenzione per i dettagli storici, è la straordinaria attualità di questo libro, dal momento che le problematiche di un’epoca si ripresentano, seppur in altre forme, in quelle successive come la nostra. La società medievale che l’autrice descrive, governata da brame di potere, lussuria e denaro, non è in fin dei conti diversa da quella del nostro presente, nonostante gli stili di vita siano drasticamente e inevitabilmente mutati. Il monito è lampante: il mondo cambia, senza però mai cambiare davvero. Essere donne in un mondo di uomini Giulia e Nicoleta hanno una diversa estrazione sociale, eppure sottostanno entrambe al volere e ai capricci degli uomini, che forse in questo romanzo al femminile vengono demonizzati con un po’ troppa veemenza. Il senso di essere prima di tutto donne e poi madri, viene analizzato dall’autrice con delicatezza, una cura rispettosa trattandosi di tematiche spinose e profonde. In alcune sequenze è toccante entrare negli intimi pensieri delle due protagoniste, sopraffatte dal dolore per un mondo maschile opprimente e violento, in altre ci si trasforma in giudici severi perché dall’esterno di una situazione non la si può capire completamente e le decisioni che le due donne sono chiamate a prendere appaiono persino come ciniche ai nostri occhi. “ Come potrei perdonarlo se non sono ancora riuscita ad assolvere me stessa? ” In sintesi, La prigioniera del silenzio è un romanzo storico ben costruito, talvolta forse prevedibile negli sviluppi dell’intreccio ma sicuramente dotato di una carica emotiva coinvolgente per qualunque lettore. Anche la cura per la caratterizzazione psicologica dei personaggi secondari è ammirevole, spesso tralasciati da molti autori che preferiscono concentrarsi solo sui protagonisti. Si possono comprendere le scelte delle due protagoniste oppure le si possono condannare, quello che è certo è che non è una lettura che lascia indifferenti. Dove Trovarlo La Prigioniera del Silenzio
- Il mondo in frantumi: conflitti, disinformazione e la lotta per la verità
Conflitti globali e giornalismo: il peso della disinformazione e la necessità di un risveglio umano Torno da un viaggio in quella fetta di mondo dove il rumore degli spari è il coro costante del quotidiano, dove i bambini vengono addestrati a impugnare un fucile prima ancora di imparare a leggere. È la Repubblica Democratica del Congo , ma potrebbe essere uno qualsiasi dei tanti Paesi dove la guerra e la miseria sono tutt’uno. Apro il giornale, consulto le testate online, mi aspetto titoli altisonanti e approfondimenti essenziali: trovo, invece, retorica, disinformazione e l’ennesima grande svista sul dolore del mondo. Eppure, in quest’era di sovrabbondanza mediatica, sembra assurdo che l’orrore resti invisibile. Siamo bombardati da notizie, da continue breaking news che si perdono in un vortice di immagini spettacolari e parole gridate. Ci vantiamo di avere tutte le informazioni a portata di mano e, paradossalmente, non sappiamo più nulla: la verità si disperde, la nostra empatia si anestetizza. Così, mentre in Etiopia infuria una crisi umanitaria (solo nel conflitto del Tigray, secondo stime accreditate dell’ International Crisis Group , sarebbero morte fino a 500.000 persone tra il 2020 e il 2022), in Ucraina e Russia l’eco dei bombardamenti si ripete ogni giorno, e in Congo milioni di sfollati vagano senza meta, pronti a diventare ombre ancora più sottili. Ho camminato in villaggi sommersi dalla polvere rossa del Sud Kivu , dove ogni sorriso porta i segni della fatica e del terrore. Bambini di dieci anni assoldati da milizie ribelli come l’M23 o costretti a combattere dai gruppi Mai-Mai “Wazalendo”. Nel conflitto congolese, solo dal 1998 a oggi, si stima siano morte oltre 5 milioni di persone, rendendolo – dati alla mano dell’ International Rescue Committee – uno dei conflitti più letali dopo la Seconda Guerra Mondiale . I racconti dei sopravvissuti si perdono in un silenzio che stride con la loro voglia di gridare. Ma l’assurdo è che, tornando a casa, ci si imbatte in una società che consuma notizie con la stessa voracità con cui si trangugiano merendine. Tutto scorre in fretta, tutto si brucia in un istante, e la realtà – quella vera – resta nascosta dietro un titolo accattivante ma vuoto. Nel frattempo, il conflitto tra Israele e Palestina miete vittime ogni giorno. Secondo i dati delle Nazioni Unite , a Gaza e in Cisgiordania il 2023 è stato uno degli anni più sanguinosi dell’ultimo decennio. Ma l’attenzione mediatica s’incendia a intermittenza, cavalcando l’onda emotiva di un bombardamento più feroce del solito o di un attacco suicida più eclatante, per poi spegnersi nel giro di poche ore. Simili dinamiche si ripetono in Costa d’Avorio e in Sud Sudan , dove l’instabilità politica e i conflitti interni non hanno mai permesso alla pace di attecchire. In questo caos, arriva la notizia dell’arresto di una reporter italiana, Cecilia Sala . Una storia che, se fosse riconosciuta come tale, servirebbe per riflettere sulla sorte dei tanti giornalisti e attivisti che ogni giorno rischiano la vita per raccontare ciò che il mondo non vuole vedere. Secondo il Committee to Protect Journalists (CPJ) , nel 2022 erano ben 363 i cronisti imprigionati nel mondo; un dato destinato a crescere, se consideriamo che la repressione della libertà di stampa è in aumento in diverse regioni del pianeta. Ma cosa ne emerge dai grandi mezzi di comunicazione? Disinformazione, versioni imprecise, editoriali polemici che si scontrano in un’arena di opinioni spesso sterili. Le femministe gridano al sessismo, i vegani attaccano le multinazionali, gli ambientalisti denunciano i combustibili fossili, i religiosi predicano la morale. È una babele di voci dove la verità smarrisce i contorni. L’ho toccato con mano in Congo, ma l’ho visto anche in altre zone del pianeta: la miseria non è soltanto materiale, è culturale, è morale. È la stessa miseria che spinge un parlamento – come quello iracheno, stando a voci di corridoio sulle ultime proposte di legge – ad abbassare l’età delle spose a 9 anni, una forma di pedofilia legalizzata. È la stessa miseria che fa sì che a Damasco o a Tripoli si parli di “liberazione” per mano di milizie jihadiste, che poi instaurano regimi di terrore in cui le donne scompaiono dai radar dei diritti, e gli oppositori vengono brutalmente repressi. Sui giornali si leggeva che “Damasco è libera”, si esultava per una notizia falsa e fuorviante. I cronisti che puntavano il dito sulla reale natura di certe milizie venivano tacciati di allarmismo, quando invece stavano semplicemente facendo il loro dovere: informare. Ma oggi conta di più un titolo capace di creare “clic” e polemiche social che non una verità scomoda che faccia riflettere. La rivoluzione, diceva Padre Alex Zanotelli nella conversazione che ebbi con lui a Napoli, deve venire dal basso, dal popolo. Eppure , mi domando, come potremo costruire una rivoluzione vera se, noi per primi, siamo schiavi della superficialità, disposti a vendere la verità per un pugno di retweet? Secondo l’ Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) , alla metà del 2023 si contavano oltre 110 milioni di persone in fuga da guerre, persecuzioni e carestie. Bambini che dormono a cielo aperto, uomini e donne che percorrono migliaia di chilometri con i pochi averi che hanno. E noi, qui, a discutere di titoli sensazionalistici e post sui social. Nel frattempo, in un ospedale da qualche parte nel mondo, 46 persone muoiono senza che nessuno se ne accorga; in una scuola esplosa, 150 bambini non avranno mai la possibilità di diventare adulti; e, nel silenzio di una notte gelata, 6 neonati esalano l’ultimo respiro coperti da stracci. Leggere i rapporti di Medici Senza Frontiere (MSF) o di Human Rights Watch significa confrontarsi con epidemie di colera, malaria e malnutrizione. Si tocca con mano un mondo in cui i vaccini sono un lusso, il cibo un miraggio. Eppure, le cronache quotidiane preferiscono stordirci con dibattiti che, in fondo, producono solo chiacchiere. È questo il destino dell’informazione, diventare parte di un sistema che, per rimanere in piedi, si nutre del nostro stesso cinismo? La verità, forse, è che abbiamo perso il senso di umanità. Abbiamo barattato l’empatia per un like, la compassione per un hashtag, e la dignità per un titolone che urli più forte di tutti gli altri. Chi ci guadagna? Certamente non quella “brava gente” che ogni giorno rischia la vita su un fronte dimenticato, in un quartiere degradato o in una cella stretta di un carcere segreto. Di fronte a queste verità, viene da chiedersi che senso abbia ancora denunciare, scrivere, documentare. Eppure, come insegnava Terzani, e come anche Padre Zanotelli ha ribadito con forza, il cambiamento non verrà da una qualche istituzione illuminata, ma da noi. Dal basso, dalla nostra volontà di rimettere al centro la dignità umana e di farlo con gesti concreti, con parole che pesino sul serio. Ci accorgiamo di quanto tutto questo sembri impossibile? Certo. Ma forse è proprio di fronte a questa sensazione di impotenza che si nasconde la nostra possibilità di riscatto. Il mondo è impazzito, è vero. Ma non per questo dobbiamo rassegnarci all’idea che non si possa far nulla. Raccontare, denunciare, pretendere un’informazione seria e onesta, smascherare i giochi di potere: sono i piccoli gesti da cui potrebbe germogliare una rivoluzione morale, prima ancora che politica. Finché continueremo a confondere la verità con lo slogan, la sofferenza con la propaganda, e la giustizia con il nostro tornaconto, avremo perso in partenza. Ma se anche uno solo di noi, di quelli che sanno e che vedono, decidesse di non tacere più, se anche uno solo di noi iniziasse a denunciare la menzogna e a condividere i fatti reali, con tutti i loro numeri, allora saremmo già un passo oltre il baratro. E, chissà, magari un giorno potremmo persino diventare davvero una comunità umana che merita di chiamarsi tale. Resta sempre aggiornato seguendo il nostro Canale YouTube .
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- Raw Facts Redazione | Giornalismo e fotografia
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